Trovate alle galassie una ragione per non temere (Wonder Women)

Mi rimproverò. Chi era? Mia madre,

un’amica oppure un soggetto dal genere volutamente lasciato aperto.

Mi disse: tu le ami non sentendo niente o sentendolo di tanto in tanto.

Come il fruscio sulla mia biro e sul mondo che si ricorda di essere attraversato dal vento solo quando la caduto del cielo lo scompiglia.

Mi disse: tu le ami ma non ricordi i loro viaggi,

ti giustifichi dicendo che i nomi sono solo etichette e che senza pesce non c’è memoria.

E l’animale che davvero ti muove stanotte ti suggerisce che la fame, le guerre e gli snob di strada

rendono in fondo il mondo un posto migliore.

Migliore perché sarebbe noioso senza,

dove la misura della felicità è l’impallidire dell’angoscia e del vuoto 

che prevalgono, mi disse ora, quando indovini l’assenza tra loro 

di quell’intesa che a mattino possederebbero due amiche nel letto,

due amiche estranee che per caso,

per amore dell’esperimento o per gioco,

ti ritrovi ad amare;

ma (io lo ripeto e mi difendo e non so che bisogno ci sia ma lo faccio),

se le amo è più per caso che per gioco,

è più per gioco che per noia, 

è più per noia che per conformismo.

E crollerebbe l’intero tetto del cielo facendomi sanguinare ogni singola parte del volto se anche una sola di loro partisse e abbandonasse la partita che abbiamo deciso di giocare assieme,

o si ferisse durante questo gioco che non è troppo diverso dal protagonista indiscusso

di tutte le canzoni e le fiabe d’avventura.

Tranne che per l’amarezza che non sia mai esistito smulltronstallet in cui l’alleanza di sguardi

abbia potuto dissipare

l’erba cattiva dal mistero di come siano fatte,

inconfessato mistero: l’ansia delle galassie di non avere sufficiente universo

dalla propria parte.

Matteo Iammarrone.

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