Primo giorno in una scuola superiore svedese – Parte I

Bene. Dimenticate per un attimo tutto ciò che sapete sulla scuola. Purgate la mente di tutti quei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza che contribuiscono alla formazione del vostro concetto di scuola. Un insieme di immagini, più o meno grigie. Di tensioni. Di ansie. Di compiti non fatti mangiati dal cane o dal micio. Di permessi per andare in bagno. Ma anche di soddisfazioni, di bei voti, parole di apprezzamento ai colloqui coi genitori o da parte dei professori in presenza dei compagni di classe. Professori. Dimenticateli per un attimo e sostituiteli con degli insegnanti. Magari anche giovani, sorridenti e digitali. È così che li chiamano qui i professori: insegnanti. Nel curriculum che ho dovuto studiare prima di entrare nel Gymnasiet (la nostra ”scuola superiore”) della cittadina svedese di Falun “insegnamento” e “partecipazione” erano sostantivi ricorrenti. Così come “uguaglianza di genere” (non parità dei sessi, uguaglianza di genere, e la differenza tra sesso e genere non ancora entrata nel senso comune italiano non è un caso e non è da poco). “Partecipazione studentesca” e “prospettiva internazionale” erano soli alcuni degli altri termini-chiave del curriculum.

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Un parco verdissimo mi conduce all’ingresso dell’edificio scolastico. È un museo. Animali imbalsamati vicino all’ingresso. È una struttura iper-moderna. Così come all’università che frequento tutte le porte sono dotate di un sistema di ingresso con codice. È un luogo di socialità (nonostante l’apparente approccio non proprio socievole della maggior parte degli svedesi). Armadietti e momenti di convivialità tra studenti e professori in appositi spazi ricreativi. L’architettura poi è quella tipica di questo Paese, con i mattoni rossi della regione Dalarna, i parquet e massiccio uso di legname finemente lavorato. Non smetto di sorprendermi quando, in un perfetto inglese, sono accolto dall’insegnate Adolphson e condotto nella staff-rum dei professori dotata di confortevoli poltrone ed anche di una cucina con forni a micro-onde per scaldare cibi portati da casa.

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Usciamo e incrociamo la mensa dove alle ore 11:30 pranzerò in compagnia di alcuni studenti. Un servizio per me accettabile, e più che buono da una prospettiva svedese avvezza a considerare il cibo più un bisogno fisiologico che un rituale di socialità. Sono gratuiti anche i (pochi) libri ed i computer portatili assegnati a ciascuno studente, fondamentali per svolgere i “compiti”. Ciascuno poi, come incoraggiamento, riceve 2500 corone (250 euro circa) al mese, a patto che sia presente al 70% delle lezioni annuali. I registri sono ovviamente delle tabelle sul computer dell’insegnate (stesso modello e colore dei computer dati agli studenti e un adesivo con scritto ”Falun-Kommun”).

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La lezione di Adolphson è nell’aula 219 del corridoio NA16 (dove Na sta per “natura”). L’insegnante mi conferma che molto spesso gli studenti cambiano aula al termine di ogni lezione. “Bene”, penso. Hanno innanzitutto più libertà di movimento. Si comincia. Non si tratta di una tradizionale performance frontale, ma di una figura più avanti con gli studi che fornisce linee guida chiare e di studenti che le applicano, divisi in gruppi, servendosi dei loro portatili iperconnessi, spostandosi anche in altri ambienti della scuola se lo desiderano e senza chiedere il permesso per andare in bagno. Adolphson è un professore di storia e arte. Il compito dei suoi studenti questa volta è preparare un’esposizione critica relativa alle ultime elezioni svedesi (ipotizzare una maggioranza alternativa a quella formatasi), alle imminenti elezioni americane e al dibattito aperto sulla monarchia svedese. Si mettono tutti a lavoro e, devo dire, appaiono motivati. Forse perché l’atmosfera è particolarmente dialogante e conviviale. Non hanno il “lei”. Possono andare liberamente in bagno. Non sono lì incollati a una sedia da sei ore. O forse anche perché, come mi dirà Adolphson, a partire dal secondo anno (nostro quarto anno) possono scegliere quali corsi seguire (come fossero all’Università). Allora chi è lì non può non essere interessato a quello di cui si sta parlando.

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L’insegnante sa che la mia imminente laurea italiana in filosofia mi proietterebbe verso l’insegnamento. Mi rivela allora che la filosofia non gioca un ruolo di primo piano nella scuola svedese, è solo una delle materie a scelta nel secondo e terzo anno. Ma tra le materie obbligatorie del primo anno ci sono scienze sociali e religione. Specifica subito che si tratta di dibattiti su controverse questioni etiche (non esattamente la nostra imbalsamata IRC). Un conversare che non poggia magari su particolari basi teoriche o su citazioni pronte di autori classici, è vero. Ma che comunque pone al centro l’opinione degli studenti e la loro personale esperienza.

Molto si potrebbe poi scrivere sul perché in Svezia il posto che nei licei italiani è occupato dalla filosofia sia occupato dalla ”religione” e dalle scienze sociali. Forse per via del loro amore per le statistiche o perché i loro nomi della storia del pensiero non hanno probabilmente avuto risonanza europea, o ancora perché le scienze sociali appartengono al patrimonio svedese più di quanto la filosofia appartenga al patrimonio del resto d’Europa (sin dagli anni trenta commissioni governative composte da scienziati sociali sono state determinanti nello sviluppo delle politiche per la famiglia e per le donne). Ma non è questa la sede adatta per approfondire l’argomento. Quello che possiamo però affermare è ciò che ogni lettore si aspetterebbe: e cioè che la scuola svedese è molto più scuola e molto meno caserma e ospedale delle nostre scuole superiori, ancorate ad un marcio presente a causa della carenza di risorse che renderebbe impossibile l’attuazione di una simile idea di scuola anche qualora ci fosse la volontà. Un simile sistema educativo, infatti richiederebbe ambienti fisici e risorse di una certa entità (quantitative e qualitative) al fine di sviluppare un rispettivo ambiente pedagogico e manipolarlo nella giusta maniera, nella direzione della partecipazione studentesca, dell’uguaglianza di genere, di un ripensamento dell’equilibrio dei poteri degli studenti e degli insegnanti, tutti fattori che, a dispetto di alcuni pregi come la supposta solidità della conoscenza teoretica, nella scuola italiana mancano.

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