Natura e cultura: un po’ di chiarezza

Il conflitto natura-cultura è ancor più originario e ”fondazionale” di quello tra capitale e lavoro (che pure pulsa e pulserà nelle nostre società fino a che la divisione in classi permarrà). Comprenderlo è utile al fine di qualsiasi critica radicale dell’esistente. Comprendere infatti che l’uomo è libero di autoprogettarsi e non ha natura predefinita (come del resto non l’ha alcuna ”sostanza”) è propedeutico ad ogni critica rivoluzionaria, che non può essere credibile se prima non sgombera il campo da ogni pernicioso retaggio cristiano-aristotelico (di una scolastica resa obsoleta da ormai quattrocento anni). Diversi atei e molti freak che sembrano così radicalmente di sinistra non sono esenti da questi retaggi e pregiudizi, anzi.

Chiedo venia ai lettori se ho inserito così frequenti citazioni e se il lessico filosofico impiegato può sembrare astruso, ma l’articolo è una rielaborazione del paper consegnato come esame di un corso all’Università (antropologia filosofica del Prof. Brigati, che ringrazio per il 29). Inoltre: mi rendo conto che il tema è così eternamente attuale ma al tempo stesso così vasto, e può essere affrontato partendo da diversi punti di vista: io sono partito dal mio (chiaramente). Credo però di aver prodotto un utile spunto di riflessione, seppure embrionale.

(Se vi state chiedendo perché sarebbe tremendamente attuale pensate a tutte le volte che qualcuno per difendere o attaccare una posizione politica o un modo d’essere o una scelta di vita ha strumentalmente tirato in ballo la natura, o anche per legittimare o per delegittimare una determinata concezione del potere).

 

Chi dovesse avventurarsi in una lettura ingenua di Aristotele si troverebbe ben presto a concordare passivamente con lui su molti passaggi salienti della sua filosofia. È infatti almeno dai tempi del filosofo di Stagira che si parla di natura (“physis”) in accezione “moderna” ed, anche attraverso la mediazione del cristianesimo, l’idea per cui questa natura, che sarebbe poi l’essenza, la finalità, la predisposizione di una cosa sia indissolubilmente legata ad ogni cosa stessa, è passata e si è affermata nel pensar comune. Per Pierre Hadot Aristotele “Definisce la natura come un principio di movimento interno a ciascuna cosa. Ciascun individuo concreto ha al proprio interno una concreta natura che è propria della sua specie ed è il principio del suo modo naturale di muoversi (….) nei viventi, questo principio immanente di movimento è anche un principio di accrescimento” (Hadot, 2004). La sociobiologia (o psicologia evoluzionista) tenta di spiegare i comportamenti degli animali sociali (Homo sapiens incluso) su basi strettamente biologiche. Nonostante si sia sviluppata nella prospettiva secolarizzata dell’evoluzionismo darwiniano essa, per le sue conseguenze, sembra lasciare ben poco spazio alla libera progettualità del Dasein, cara ad esistenzialisti come Heidegger e Sartre, il quale ovviamente rifiuta il naturalismo: “l’uomo non è un tagliacarte” (Sartre, 1946), nel tagliacarte infatti l’essenza precede l’esistenza. Così facendo la sociobiologia sembra poter essere accomunabile alle vecchie concezioni prima aristoteliche e poi cristiane per cui non si sfugge alla propria natura (che, cristianamente, si traduce nel posto dell’uomo nella creazione e nel suo essere a metà strada tra le bestie e Dio). In ambito strettamente genetico il determinismo “genocentrico” e strettamente riduzionista di Richard Dawkins ne è la prova, non tenendo conto dell’epigenetica né dei fattori ambientali e guardando ai geni come a divinità creatrici di un ordine “interno”, dei intelligenti quasi creatisi da sé, “egoisti” che lascerebbero ben poco scampo ad alternative radicali. “L’argomento base di questo libro è che noi, e tutti gli altri animali, siamo macchine create dai nostri geni. Come i gangster di Chicago che hanno avuto successo, i nostri geni sono sopravvissuti, in alcuni casi per milioni di anni, in un mondo altamente competitivo. Questo ci autorizza ad aspettarci che i nostri geni possiedano certe qualità. Io sosterrò che una qualità predominante da aspettarsi in un gene che abbia successo è un egoismo spietato”. (Dawkins, 1989). Se tralasciamo il fatto che in questo caso non si dà scarto ontologico tra uomo e animale (una delle più grandi conquiste del darwinismo è stata proprio dimostrare che l’uomo è un animale), in un certo qual modo questo approccio al darwinismo sembra una concezione “aristotelica” sul fronte della natura, quanto meno nelle conseguenze che potrebbe comportare le quali sono probabilmente ancor più evidenti in Edward O.Wilson che, in “The Abridged Edition”, propone di togliere l’etica dalle mani dei filosofi e di “biologizzarla”, affidandola a scienziati in grado di ripristinare caratteri “originari” dell’evoluzione della nostra specie attraverso un programma di pianificazione sociale. Verrebbe da chiedersi quali sarebbero le immediate conseguenze politiche di questa visione e a chi e a quanti gioverebbero se per “caratteri originari” si intendesse quelli di uomo necessariamente lupo, cannibale e stupratore. Una delle critiche alla sociobiologia è mossa sul suo stesso terreno da Alberto Artosi nel saggio “Stupratori, cannibali e scienziati” (2011). Per i sociobiologi lo stupro (o, per usare un termine meno antropomorfo “forme di sessualità coercitiva”) sarebbe spiegabile geneticamente come fattore evolutivo (monopolizzazione della sessualità femminile da parte del maschio in un contesto di disponibilità limitata) e gli insetti non avrebbero alternativa se non quella di vivere in colonie chiuse, protetti da efficienti meccanismi di esclusione e difesa dell’altro, nella totale impossibilità di sfuggire a questo destino. Uno studio comparso sul “The Guardian” del 2007, condotto con recenti e sofisticate apparecchiature, dimostrerebbe che invece molti insetti emigrano più volte nel corso della loro esistenza, integrandosi perfettamente nelle colonie di adozione. E a proposito dello stupro: è vero che esso è molto diffuso nel regno animale (i maschi dello scorpione volante Panorpa vulgaris possiedono addirittura un organo atto ad adempiere a questa funzione), ma gli psicologi evoluzionisti non sono stati in grado di spiegare perché, se di un meccanismo evolutivo si tratta, i dati quantitativi delle ricerche dimostrano che la maggioranza degli stupri sono commessi non da sconosciuti ma da partner delle stesse vittime, con i quali per giunta le vittime stesse potrebbero aver avuto anche rapporti consensuali. In “The Insects Societes” (1971) lo stesso Wilson studia le società degli insetti e poi tenta l’analogia con quelle umane. Scopre che nella drosofila la femmina è monogama ed il maschio poligamo. Il fatto che il localismo delle scienze sociali prenda il posto di un universalismo che si presenta come neutrale ma che chiede un atto di fede in una analogia antropomorfica la cui validità resta dubbia, depotenzia l’intero assetto di queste posizioni sociobiologiche. Per non parlare delle possibili strumentalizzazioni ideologiche di queste teorie: trovare geni che giustifichino lo stupro, ad esempio potrebbe essere utile in sede giudiziaria per attenuare la posizione di uno stupratore, sostenere la validità dell’analogia tra la drosofila e la razza umana a giustificare l’apparente maggiore promiscuità degli uomini rispetto alle donne per evitare di ricondurla più verosimilmente ad uno scoglio culturale di una società capitalistica che, nonostante le pretese di “emancipazione” e laicizzazione, anche in questo ambito (quello della parità tra i sessi), come in altri, non ha integralmente raggiunto i suoi obiettivi formali (e non potrà raggiungerli, solo in un’altra società potrà esserci una vera democrazia…dei lavoratori, così come una vera emancipazione della donna conseguente ad una nuova complementarità uomo-donna). Perché è qui il problema: non solo fare i conti con la natura e con la nostra storia antropologica e sociale, ma capire cosa andare a “quantizzare”, quali elementi soppesare sul piatto della “musica della vita” e da quale prospettiva leggerli. Cosa “buttare”, cosa tenere. Su quali basi rinnovare l’etica? Se per esempio si adotta una posizione naturalista per cui, aristotelicamente, ciò che è considerato “naturale” diventa norma, si finisce per entrare in un circolo vizioso senza via d’uscita, in cui saremmo costretti a scartare con una eccessiva dose di arbitro quello che non ci piace, per optare invece per quello che ci piace, o meglio per quello che ci è più comodo (vedi oscurantisti del Family Day). Il rischio, insomma è quello di usare per due pesi due diverse misure, in una iniqua, inefficace (e aggiungiamo pericolosa) confusione di natura e cultura. Per David Hull, sebbene esista un forte desiderio di definire le specie biologiche (inclusa quella umana) come caratterizzate da una natura fissa, proprio l’evoluzionismo rende impossibile l’impresa. In esso infatti gioca un ruolo fondamentale la variabilità, in quello biologico di Darwin, così come in quello culturale. “Per esempio, è molto più arduo sostenere che esistono tratti universali di stampo genetico anziché culturale, perché è più facile stabilire l’identità degli alleli che non quella delle pratiche culturali” (Hull, 1986). “Semplicemente non è vero che tutti gli organismi che appartengono alla specie homo sapiens in quanto specie biologica siano essenzialmente identici. Se parlando di caratteri si fa riferimento alle omologie evolutive, allora di tanto in tanto potrà anche accadere che una specie biologica sia caratterizzata da uno o più caratteri che sono sia universalmente distribuiti tra gli organismi che appartengono a quella specie, sia ristretti a essi, ma situazioni del genere sono temporanee, contingenti e relativamente rare” (Hull, 1986). Insomma non ha senso parlare di “sameness” (“essenziale identità degli esseri umani”). Anche su base genetica (la biologia non sarà la più “dura” delle scienze, ma è comunque considerata più “forte” delle scienze sociali). Questo nonostante i tentativi di biologi ed antropologi di dimostrare il contrario, come se avessimo bisogno di una dimostrazione “scientifica” dell’uguaglianza per legittimare l’uguaglianza dei diritti. Ma se volessimo un esempio suggestivo di cosa comporti credere il contrario, potremmo provare a parlare di cannibalismo. Pratica sociale la cui esistenza è stata storicamente provata nelle passate società umane, per una forma di naturalismo come la sociobiologia esso, oltre ad essere presente in oltre milletrecento specie animali, sarebbe costitutivo anche della natura umana. Avrebbe un vantaggio riproduttivo per l’individuo che ha come fine quello di promuovere i propri geni a spese degli altri, ma si sarebbe estinto per ragioni storico-culturali. Come si fa a provare che il cannibalismo è stata una pratica culturale diffusa ed estintasi alla stregua di altre pratiche culturali? O al contrario che il cannibalismo continua a caratterizzare il nostro “programma” e il non praticarlo è una inibizione moderna? Come provarlo? Probabilmente è impossibile. Ne dovremmo dedurre che forse non è utile parlare di natura umana, ma semmai tentare di spiegare come e perché si è smesso di praticarlo. Una ipotesi potrebbe essere che la sua estinzione è ascrivibile all’interno di una evoluzione culturale più ampia in cui l’Homo sapiens ha man mano accresciuto la propria capacità di comprendere i con-specifici come esseri intenzionali simili a sé e per questo poco adatti a diventare pasto. Quello che per Tomasello differenzia, nel dominio cognitivo, l’eredità biologica umana da quella degli altri primati, infatti è una profonda capacità di immedesimazione, la quale sarebbe stata vincente nella storia evolutiva, nonché responsabile di tutti i processi di sociogenesi (creazione comune di artefatti) e più in generale di processi di apprendimento e accumulazione culturale. Anche questa ipotesi ha dei limiti. Sarebbe meglio avventurarsi in una spiegazione più descrittiva di ciò che è stato ieri, abbandonando “wittgesteinianamente” la credenza che una spiegazione causale possa restituire con efficacia il senso di un rito o di un’usanza del genere, per formulare piuttosto indicazioni utili a come dovremmo vederci oggi. A parte la specificità dell’esempio, una riflessione più generale di Marshall Sahlins, che suona come un vero e proprio monito in riferimento a Dawkins, a Wilson e non solo, appare più che mai opportuna: “Ignari della storia e della diversità culturale, questi entusiasti dell’egoismo evoluzionistico non sono in grado di riconoscere nel loro ritratto della cosiddetta natura umana tratti del classico soggetto borghese. Oppure essi celebrano il proprio etnocentrismo prendendo alcune delle nostre pratiche usuali come provo delle loro teorie universali sul comportamento umano.” (Sahlins, 2008). Non in questi termini dal sapore già politico, ma su un terreno ancora genetico, Denis Noble, in “La musica della vita”, attraverso i suoi studi sul cuore dimostra la fallacia del determinismo riduzionista di Dawkins. Il nucleo centrale dell’argomentazione di Noble è che “Il libro della vita è la vita stessa, che non può essere ridotta a uno degli archivi di dati che ne costituiscono la base (i geni): sia chiaro infatti che il genoma è solo uno di tali archivi e le funzioni dei sistemi biologici dipendono anche da importanti proprietà della materia che non sono specificate dai geni”. (Noble, 2009). Il gene dunque non è egoista, ma prigioniero. Allo stesso modo l’Homo Sapiens non è prigioniero dei propri geni, ma sono i geni prigionieri dell’Homo Sapiens. Infine, se si vuole affrontare la sociobiologia partendo dai suoi stessi presupposti, si potrebbe dire che, alla luce della recente scoperta sulla fluidità delle società degli insetti, gli uomini non dovrebbero essere prigionieri delle frontiere, ma le frontiere trasformarsi ed obbedire ai cambiamenti e agli stimoli umani, e che ogni “colonia” può ospitare nuovi individui che potenzialmente possono riuscire a ben integrarsi. Se però usassimo queste tesi per sostenere politiche di accoglienza e di flessibilità delle frontiere (o finanche di abbattimento delle stesse), cadremmo nella trappola della sociobiologia stessa. La soluzione allora potrebbe essere quella di ostentare queste falle ogni qualvolta sentiamo parlare di natura umana o, in salsa più moderna, di psicologia evoluzionista e ad ogni occasione spostare le questioni etiche e politiche su un terreno diverso. Nessuno vuole negare la presenza di una “doppia eredità” (biologia e culturale), si vuole solo sostenere che la prima è trascurabile, se paragonata alla seconda. Tomasello, nel suo “Le origini culturali della cognizione umana” (1999) afferma a tal proposito: “Qualunque seria indagine sulla cognizione umana, perciò, deve tener conto di questi processi storici e ontogenetici, che sono resi possibili, ma niente affatto determinati, dall’adattamento biologico che è alla base del tipo di cognizione sociale peculiare dell’uomo.” (Tomasello, 1999). Se l’uomo moderno vuole davvero assolvere il compito che si è dato attraverso la costruzione della propria auto-immagine, cioè quello di dominare la natura, deve imparare a dominare se stesso, proseguendo in direzione dell’emancipazione dalla propria eredità biologica, non annientando, laddove presenti e laddove riconoscibili, fattori evolutivi che, seppure in maniera tutt’altro che rigida (come argomentato prima) lo caratterizzano, ma ponendoli al proprio vantaggio, cioè a vantaggio del proprio benessere, e se è vero, come Tomasello sostiene, che è grazie all’immedesimazione e quindi in un certo senso all’altruismo che siamo sopravvissuti e abbiamo costruito il progresso, porre questi fattori a proprio vantaggio significa porli a vantaggio dell’intera comunità, depurandola il più possibile di quella competizione della “sopravvivenza del più adatto” che, ai nostri occhi, sembra caratterizzare tanti altri animali. (Questo a prescindere dal fatto che, secondo alcuni, non può esistere un altruismo disinteressato. A questi fini sono gli effetti che contano, non le intenzioni). È una risposta imprecisa e insufficiente questa all’esigenza di capire non tanto chi o cosa siamo, ma dove dovremmo andare? È una non risposta? Probabilmente già abbandonare l’idea che esista una natura umana caratterizzata da tratti che sembrano coincidere con quelli del soggetto borghese, sarebbe una bella conquista perché quanto meno metterebbe in dubbio la convinzione (propagandata a piena voce da tutti i potenti mezzi che la classe dominante ha in mano) per la quale l’unica società umana possibile è quella capitalistica, improntata al ricatto e alla competizione reciproca su grande e piccola scala. A dispetto di chi pur riconoscendo questo sfruttamento, ci vede un tratto inestirpabile di una presunta natura umana, De Wall sostiene che quest’idea di origini hobbesiane di un “homo homini lupus” è uno dei più grandi pregiudizi della filosofia. Credendovi, non solo si fa un torto ai lupi, che sono tra gli animali più gregari e cooperanti di tutte le specie, ma si trascurano aspetti empatici e altruistici dell’uomo che, semmai volessimo ricondurre ad una base biologica (con tutti i limiti che questo comporta), avrebbero la stessa legittimità e rilevanza di quegli aspetti moralmente ripugnanti. Del resto, come anche Tomasello sembra suggerirci, sarebbe difficile credere che Homo sapiens abbia raggiunto tale grado di sviluppo culturale senza la cooperazione e l’altruismo. Ne concluderemo che la nostra natura è, sostanzialmente, libera di essere progettata. E che la direzione di questo progetto, che per noi è un progetto comunista, tenga conto anche della lezione di Tomasello e De Wall.

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