Due esempi pratici del volto oscuro dell’etica svedese

Con questo breve estratto spero di dare il via ad una proficua carrellata di articoli-testimonianza che non hanno pretese scientifiche, ma solo appunto di riflessione collettiva e reportage personale in qualità di studente e lavoratore intellettuale emigrato in Svezia, un Paese di cui, come spesso accade, si ha nel bene e nel male un’immagine pittoresca. Voglio riportare due avvenimenti della mia vita privata che sono rappresentativi e, sulla base dei miei tanti viaggi, sono significativi per questo Paese nel senso che non potrebbero accadere da nessun’alta parte, non con la stessa frequenza non nelle stesse modalità quanto meno.  Spero di offrire con questo e altri contributi uno spaccato al dibattito sulla Svezia. Dopo due anni questo Paese continua ad affascinarmi per il suo essere il più democratico e moderno di tutti, e quando uso questi due aggettivi li utilizzo in tutta la loro ambiguità: non solo la Svezia è moderna, ma è troppo moderna, non solo è democratica ma è talvolta pericolosamente democratica. Tuttavia qui mi concentrerò su esempi che riguardano la questione della rigidità delle regole. Una questione nient’affatto banale. Ci sono dei casi infatti in cui non ci sono regole, e ciascuno fa ciò che gli pare (per esempio a scuola gli alunni possono uscire e rientrare senza chiedere permessi particolari e/o sedersi sul pavimento oppure stendersi sui banchi). Altri in cui sono rigidissime (sebbene poche, facili da memorizzare e quasi sempre spiegate). Ma ciò che più salta agli occhi a qualsiasi non svedese è che sembra esserci un solo modo di fare tutto. Tutto è inspiegabilmente uniforme. E nessuno lo mette in dubbio. Seguono due esempi dalla mia vita privata.

(mis)Fatto 1. La scorsa estate è accaduto un fatto spiacevole. La mia partner non era in Svezia e avevo bisogno di dormire a Uddevalla, la sua città natale. Allora come favore mi ha lasciato le sue chiavi. Il nostro accordo era che, dopo due notti a casa sua, avrei imbucato le chiavi nella sua casetta della posta. Soggiorno presso il suo l’appartamento come da accordo (un monolocale squadrato con parquet finto e ambiente asettico come ce ne sono a iosa qui in Scandinavia). Tuttavia al mattino, forse per la fretta di prendere il treno, imbuco il suo mazzo di chiavi nella cassetta della posta sbagliata. (L’appartamento si trova in un condominio con decine di nomi e le cassette sono una sull’altra così che diventa ambiguo a quale nome appartenga una determinata cassetta).

Dopo una settimana sia io che lei veniamo a conoscenza del misfatto: le sue chiavi non sono nelle cassetta! Dove sono finite? Ipotizzo ciò che ho scritto qui, e cioè che semplicemente le ho lasciate nella cassetta sbagliata che non è certo la cassetta di un orco mangiauomini, ma di un vicino che magari abita sullo stesso pianerottolo. Alla storia va aggiunto un dettaglio: in quei giorni la mia ex stava traslocando, il giorno in cui ha tentato di ripescare le sue chiavi era il giorno in cui avrebbe dovuto consegnare il monolocale al proprietario! Chiama il proprietario e spiega la situazione, proponendo la soluzione più banale quella che qualsiasi animale razionale proporrebbe: chiamare il vicino!

Invece no. Le chiavi sono state smarrite. Bisogna pagare una penale di 2000 corone (200 euro!). Così dicono le regole. Così è scritto sul contratto. Applicato alla lettera. In un mondo normale sarebbe stato contattato il vicino chiedendogli di recuperare le chiavi nella cassetta della posta.  (Senza il timore del contatto umano né quello di violare la sua individualità, due paure alla base dell’ethos svedese).

(mis)Fatto 2. L’applicazione ossequiosa delle regole può condurre ad agire come robot preprogrammati. In quei casi l’unica speranza è che chi ha fatto le regole abbia previsto ogni possibile eccezione. Per fortuna questa volta non ci ho rimesso soldi, né tanto meno la vita, ma solo dieci minuti di esistenza, nulla di grave. Ma è il principio che conta. Mi reco all’Ufficio Migrazione (Skatteverket) per ritirare la mia Legitimation svedese (carta di identità svedese) dopo aver pagato un bollettino di 400 kr (40 euro circa). Mostro agli impiegati lo scontrino di avvenuto pagamento, ma lo scontrino è in italiano e non riescono a capire bene quale sia intestatario, oggetto, etc…etc…Parlano fra loro tentando di supportarsi vicendevolemente nel tentativo di tradurre quella strana lingua. Dopo ben cinque minuti di panico in cui si sono sostanzialmente chiesti: ”cosa può significare questo e quest’altro? Ma tu capisci un po’ di italiano?” etc…intervengo io che ho assistito all’intera conversazione e banalmente osservo: ”Bè…in realtà potrei aiutarvi io a tradurlo dato che io…so l’italiano!”. Mi guardano come se fossi un genio. L’unica spiegazione possibile: non è nelle loro mansioni chiedere al cliente di tradurre qualcosa per loro, ma solo interpretare da sé i documenti e eseguire le operazioni.

Matteo Iammarrone.

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